Il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso
Il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, introdotto nel codice penale all’art. 416 bis dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, c.d. “Rognoni – La Torre”, per contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, è stato oggetto, negli anni, di copiosi dibattiti giurisprudenziali.
L’art. 416 bis c.p. punisce chiunque “fa parte” di un’associazione di stampo mafioso, senza tuttavia definire in che termini possa ritenersi integrata tale condotta. Si tratta di una c.d. “tipicità incompiuta” che apre al rischio della configurazione di un reato di status (o da posizione), che sollecita indagini sul reo anziché sul reato, punendo non per “quello che si è fatto” ma per “quello che si è”, in difformità ai principi di materialità ed offensività, oltre che al principio di prevedibilità, particolarmente attenzionato negli ultimi anni, proprio con riferimento alla criminalità organizzata, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Le soluzioni affermatesi in giurisprudenza per definire la partecipazione associativa si sono ispirate a due principali modelli concettuali: uno c.d. “organizzatorio” e l’altro c.d. “causale”. Il primo ritiene sufficiente il formale inserimento, attraverso modalità rituali, del soggetto nell’organizzazione dell’associazione di stampo mafioso; il secondo, più garantista, fa consistere la condotta di partecipazione in un contributo apprezzabile apportato dal singolo alla vita o al rafforzamento dell’associazione.
La progressiva diffusione del modello causale è stata dettata dall’esigenza di superare quella tendenza interpretativa che “appiattiva” il contenuto della partecipazione sull’accertamento della affectio societatis, accontentandosi ai fini della punibilità della mera manifestazione di volontà del singolo di aderire al sodalizio e di rendersi disponibile per l’attuazione del programma associativo.
Su tale scia ermeneutica si colloca la sentenza Mannino[1], con la quale la Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare un ruolo dinamico e funzionale.
L’esigenza di rendere la condotta di partecipazione ancora più in linea con i principi costituzionali di materialità e offensività ha sollecitato la Cassazione, sempre nel suo massimo Consesso nomofilattico, a valorizzare ulteriormente la proiezione fattuale dell’inserimento organico del sodale nella struttura della criminalità organizzata, richiedendo lo svolgimento di comportamenti effettivi e concreti espressivi del ruolo assunto. Nello specifico, le Sezioni Unite con la sentenza Modaffari[2] hanno affermato che la partecipazione si sostanzia in un inserimento che deve dimostrarsi idoneo a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso in termini di effettività e concretezza.
La condotta di partecipazione deve, quindi, esplicarsi in un contributo apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione. Da qui la necessità, per la punibilità dell’agente a titolo di partecipazione, della verifica dimostrativa della proiezione fattuale dell’inserimento organico che deve manifestarsi mediante il compimento di atti di militanza associativa eziologicamente rilevanti per il perseguimento degli scopi dell’associazione.
Di conseguenza, l’accertamento probatorio ad opera del giudice dovrà focalizzarsi sulla verifica dimostrativa di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, non potendosi ritenere sufficiente la mera messa a disposizione in astratto (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili ai sensi dell’art. 25 Cost.), va riscontrato in concreto il “fattivo inserimento” nell’organizzazione criminale.
In conclusione, la partecipazione non si esaurisce né in una manifestazione di volontà unilaterale né in una affermazione di status, non essendo sufficiente ai fini della punibilità ex art. 416 bis c.p. la mera messa a disposizione in astratto. La condotta di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, al contrario, implica un’attivazione fattiva a favore della consorteria che attribuisca dinamicità, concretezza e riconoscibilità alla condotta. Assume, quindi, assoluta decisività ai fini della valutazione di “appartenenza” ad un gruppo criminale, la possibilità di attribuire al soggetto la realizzazione di un apporto concreto, in ogni caso riconoscibile, alla vita dell’associazione, tale da far ritenere avvenuto il requisito dell’inserimento attivo con carattere di stabilità e consapevolezza.
Avv. Guendalina Chiesi
[1] Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748.
[2] Cass. pen., Sez. Un., 27 maggio 2021, n. 36958.
- Posted by Guendalina Chiesi
- On 7 Marzo 2023